C’è chi tanto vorrebbe poter votare, avere un po’ di fiducia nelle elezioni, e poi non pensarci più, per i prossimi cinque anni. Dir fra sé e sé: “Va bene, le decisioni importanti le faremo prendere a uomini importanti, che col loro impegno e la loro competenza penseranno al bene nostro e del paese.” Ma non possono, perché mentirebbero a sé stessi: eppure vorrebbero votare, vorrebbero farlo ma non possono: non hanno scelta.
Potrebbero volentieri votare un partito che proponesse di funzionare in maniera orizzontale, con un metodo sociocratico, in cui il potere sia distribuito, che dia importanza alle minoranze, al dissenso. Magari desidererebbero un metodo che non si basi sulla maggioranza, ma sull’accordo tra parti, anche quando queste sono agli estremi ideologici. Non potrebbero mai votare un partito tradizionale: chi guardi la faccia di un candidato, sorridente, intelligente, magari anche una brava persona, deve sapere che, sotto ai suoi piedi, vi sono le teste di coloro che sono stati calpestati. Non si sale sul nulla, v’è bisogno che altri ci innalzino. Chi votasse quella faccia legittimerebbe quel sistema, fatto di esseri umani schiacciati, sfruttati, strumentalizzati, e, infine, scaricati.
C’è chi ha il desiderio di votare, non le persone ma un sistema. Voterebbero, magari con piacere, chi onestamente cercasse di coinvolgere le persone che l’han votato, e che, da pari a pari, discutesse sul come cambiare il mondo. Potrebbero votare un atteggiamento, una ideologia, ma perché mai chi dissente sulle ragioni, anche quando queste ultime fossero nobili? Votare il dissenso significa ucciderlo, dargli una forma arresta la vena di creatività che solo il caos ha il potere di formare. Decidere significa complicare: i processi mentali dietro alla decisione di ognuno sono sempre e necessariamente diversi da quelli che ci circondano. Quando la decisione diviene conforme, quando la delega di tantissime persone si canalizza in un singolo individuo, significa che si andrà usare un millesimo del potenziale di idee, volontà ed energia disponibili. E quel povero diavolo, che s’è candidato, e che magari l’ha fatto anche in buona fede, sarà paradossalmente colui che più ci farà un torto. Pretenderà di incarnare ciò che non è possibile essere, ovvero le ragioni, le idee, e, infine, la voce di centinaia di migliaia di persone.
Quanto sarebbe bello poter votare, pensare di esercitare un sacro diritto, un meritevole dovere: chi si soffermasse a riflettere sulla violenza di una votazione espressa a maggioranza, ne rimarrebbe inorridito. Ogni decisione, in cui vinca una maggioranza, non può che portare a inutili inimicizie e divisioni. Noi umani siam tanto vari che i concetti, e le stesse parole, son troppo vaghe e adatte alla (male) interpretazione. Perché decidere tra A o B quando entrambe possono convivere? Perché litigare quando si può tollerare?
La nostra società si basa sullo scontro, non quello utile e costruttivo del dibattito edificante e plurale, ma quello della retorica violenta: io devo esistere e tu no. Ogni nostro gesto ne è pregno e le elezioni, proprio come gesto esclusivo, cioè che va a escludere delle possibilità, è violento. Quando il “nostro” partito vince, altri perderanno. Chi non voglia far perdere nessuno non può che astenersi. Si vince o si perde una guerra, si vince o si perde col gioco d’azzardo, si vince o si perde nell’arena dei gladiatori. Delegare per cinque anni il proprio potere decisionale, cos’è, se non un gioco d’azzardo? Tentare di vincere contro gli altri cos’è, se non una guerra?
C’è chi vorrebbe tanto poter votare la propria vita alla politica, ma senza urne, poiché esse sono adatte a contener le ceneri dei vecchi sistemi politici. Per far politica è sufficiente fare un voto, e cioè agire su quel che ancora non c’è, riempire gli spazi dove ora v’è il nulla e plasmarlo: è sufficiente men di quel che ci si immagina.
I frutti di queste volontà potranno sembrare ancora acerbi per essere raccolti, il tutto apparirà lontano e impossibile, vano e non reale, e, talvolta, demotivante. Ma chi osservi la natura sa che i frutti nascono dai fiori e che, per acquisir consistenza, richiedono il passaggio di una intera stagione.