Pioveva fuori casa e pioveva in casa. Era una pioggia violenta quella in strada e debole ma persistente quella che si infiltrava dal vetro rotto. Avevo attaccato un pezzo di plastica con il nastro adesivo, ma questo non impediva all’acqua di scivolare all’interno. Sotto il davanzale un piccolo catino avrebbe dovuto raccogliere le gocce. L’acqua però cadeva prima sul pavimento e successivamente si incanalava tra le fessure delle piastrelle, fino a giungere ai nostri piedi.
<<Vai tu stavolta?>> urlò Maria. Aveva gli auricolari nelle orecchie, e, abbracciandosi le gambe, si metteva lo smalto sulle unghie dei piedi. Muoveva la testa a tempo di musica, di qui, di là, e dalla finestra vidi le fronde degli alberi che per il vento stormivano con lo stesso ritmo. <<Ascoltano la musica anche loro.>> dissi ad alta voce, ma fu una frase che morì lì perché non c’era nessuno ad ascoltarmi.
Lo straccio era sul davanzale, grondante, presto le mie mani l’avrebbero strizzato, poi si sarebbe intriso nuovamente. Era tutta la serata che me ne occupavo e mi sembrava un lavoro inutile. Qui e là avevamo messo altri stracci ma l’acqua trovava sempre il modo di passare, creando nuovi percorsi o superando i blocchi. Il nastro adesivo si bagnava e andava rimesso. C’era qualcosa di ciclico in quella serata, nell’azione dell’evitare sempre che la pioggia entrasse, nel mantenere una stabilità innaturale, forzata.
Se lasciassimo fare il loro corso agli oggetti, essi invecchierebbero e morirebbero infine. Le case distrutte dall’edera, la frutta marcita o secca e i muri bianchi andrebbero ingrigendosi. Tutto torna ad essere polvere, le temperature si uniformano e il livello dei mari è sempre il medesimo. La terra è come un grande pendolo che tende sempre a rimanere fermo; quando qualcosa lo muove, esso ritorna gradualmente a una situazione neutra di immobilità, ed è forse la caratteristica che la rende eterna.
E allora perché mi impegnavo a sistemare una cosa che doveva succedere, non vedevo con i miei occhi ed i miei sensi, con le mie mani affondate nello straccio, che il mio lavoro non progrediva? Prendi, asciuga, strizza e così via. Il mio passato da animale e la mia vita da uomo libero erano stati dimenticati per quei pochi movimenti meccanici.
Avevo perso la mia umanità, e, anche nelle pause in cui mi buttavo sul divano, non riuscivo a pensare a nulla che non riguardasse stracci e vetri rotti. Dov’era finita la libertà di non pensare, perché la mia attenzione non poteva concentrarsi su qualcosa di più interessante? Nemmeno la conversazione mi aiutava. Quando Maria si toglieva gli auricolari io tacevo; quando li rimetteva non trovavo la forza di interromperla.
La forza di ribellarmi mi arrivò con una goccia di pioggia sulla fronte. Non so come mi colpì, ma quando alzai la testa io non ero più schiavo. Che andassero a quel paese gli stracci e la pioggia tutta, che le piastrelle si bagnassero pure, non aveva importanza alcuna che il copridivano si infracidisse o che i miei piedi sguazzassero nell’acqua. Essa era destinata ad entrare nella casa e io non glielo avrei più impedito. Con la sua immobilità, Maria sembrava essere d’accordo con me ed io non potevo chiedere di meglio.
Ero lì, umano e felice, mentre l’acqua occupava uniformemente il pavimento; ero lì, orgoglioso e coraggioso della mia decisione, mentre di millimetro in millimetro l’acqua saliva. <<Non ho paura! Non mi piegherete!>> gridai, e, preso dalla foga, corsi in cucina a riempire una pentola d’acqua. Me la rovesciai sul capo urlando animalescamente, poi la riempii nuovamente e bagnai Maria. <<Ma che cazzo stai facendo?>> mi sclerò lei contro. <<Ho cambiato partito, sto con la pioggia, sto con la natura. È lei nel giusto perché è invincibile e strizzare lo straccio non serve a nulla!>>
Convinto di come il mio ragionamento non facesse una piega, attaccai il lungo tubo da giardino al rubinetto e lo diressi verso Maria. Spruzzandole contro l’acqua gliene trasmettevo l’essenza. Bagnai i quadri, i mobili, i vetri, strappai la toppa di plastica dalla finestra e diressi il getto in strada. Maria era in piedi sul divano con le spalle contro la parete.
Un velo abbondante d’acqua aveva ormai allagato la sala e cominciava a propagarsi nelle altre stanze con estrema velocità. Era diventata una gara fra me e la pioggia e mi lanciai nel corridoio, urlando e sovrastando le imprecazioni di Maria. Col tubo sempre in mano bagnai i libri, le lenzuola, il computer. Non era un accesso di follia ma una sana ribellione dalla schiavitù: tornavo ad essere un figlio della terra, liberandomi dalle superfici pulite e brillanti, dai fornelli al profumo di vaniglia e dai deodoranti al gusto di limone.
Maria corse in cucina ma io la precedetti bloccandole la strada, mi si buttò allora contro, placcandomi. Le sue mani esili cominciarono a graffiarmi, dalla mia pelle sgorgava il sangue e sul pavimento l’acqua divenne rosata. Ma non poteva combattermi come io non avevo potuto combattere la natura. Era fuori di sé e gridava sempre più forte. Le diressi il getto d’acqua in faccia: le entrò in bocca e le sue grida vennero attutite. Mentre singhiozzava carponi vidi sulle sue palpebre lacrime appena stillate.
Perché piangeva, cosa l’addolorava? <<Maria, è il pendolo, la terra, l’equilibrio naturale!>> Le spiegai. Ma le sue lacrime erano tante e lasciai il tubo andare a terra e chiusi il rubinetto.
<<Vedrai che tutto si ristabilirà, ogni cosa tornerà al suo posto.>> le dissi.
<<Tu sei pazzo.>> biascicò lei mentre si sistemava un’unghia rotta. <<Sei completamente scemo.>> aggiunse piangendo.
<<Le previsioni danno bello domani!>> Dissi io.
Tutto si sarebbe asciugato e non c’era ragione di piangere. <<Quaranta gradi! Non sei contenta?>> Le chiesi, ma Maria mi fissò con quei suoi occhi azzurri, quasi acquosi, e non disse niente.
Me ne resi conto lì, in quel momento: io gli occhi azzurri non avevo mai imparato a leggerli.
Copertina di cocoparisienne
Sono stati i quattro minuti più intensi della mia giornata. E i più . Grazie
Ciao Vita, grazie a te per averlo letto.
E i più liberatori