Lo studente di filosofia Ivan Dmítrič Červjakòv ebbe un giorno l’onore di partecipare a una cena dove illustri professori e filosofi di fama erano riuniti alla stessa tavola. Temendo fosse indecoroso presentarsi con gli stracci che indossava solitamente, si fece prestare tutto l’abbigliamento per apparire elegante e degno di stare con gente tanto importante. Si era lucidato le scarpe di pelle per l’intero pomeriggio, e, per tutto il tragitto a piedi, era stato ben attento che non si sporcassero con neanche una macchiolina di fango. All’ingresso della grande casa del professore Sergej Kuz’mič arrivò puntuale e prima di tutti gli altri invitati. Il domestico venne ad aprirgli alla porta, e, quando lo studente gli porse il pesante cappotto dai bottoni d’ottone lucidati, il domestico gli indicò dove appenderlo e gli disse <<Se hai le mani significa che puoi usarle.>> e lo guidò poi nel salotto dove lo fece attendere; il giovane studente era così colpito nel trovarsi nella casa dell’illustre professore di cui aveva letto così tanti libri che dimenticò in fretta quella stranezza. Alla parete vi erano tanti piccoli quadri e molti rappresentavano lo stesso soggetto ma fatto da mani diverse. <<Vorrà sicuramente significare che la stessa cosa può apparire diversa a seconda di chi la guarda.>> Pensò fra sé e sé, ripromettendosi di far notare durante la cena il suo intuito, non tanto per spavalderia, ma proprio per evitare di dire fesserie e apparire come uno stupido.
Arrivati che furono gli altri ospiti, il professor Sergej Kuz’mič, da padrone di casa, si mise a stringere le mani a tutti gli invitati, compresa quella tremolante e sudata del giovane studente Tutti insieme passarono poi nella sala da pranzo e si sedettero ai propri posti, aspettando le prime portate che tardavano ad arrivare.
I piatti erano di porcellana fine e i disegni sopra erano intricati e raffinati. I calici per il vino luccicavano i colori del cristallo e le posate pesavano come l’argento pieno: tutto era ricercato e costoso: il fazzoletto che lo studente si posò sulle gambe era sufficiente a pagargli un mese di fitto, tanto elaborato era il ricamo. Arrivarono infine le portate coperte da grossi coperchi d’argento cesellato e subito si accorse che nulla era lussuoso come si era aspettato: la zuppa di carne era liquida e la polpa secca e stopposa; il pane era raffermo come di giorni prima; la tartara di carne era puzzolente e qui e là si vedevano le bianche uova di mosca; l’insalata aveva tanti punti marci da apparire più uno scarto che un ceppo buono. Stupito da questa mancanza di riguardo per degli ospiti tanto speciali, evitò quel che poteva evitare e ripensò, quasi con affetto, alla sua abituale zuppa di pane e cipolle.
Comunque contento di essere lì, aprì le orecchie e cercò di inserirsi in una conversazione. Gli pareva però di essere a tavola con degli zotici piuttosto che con persone dotte: il professor Ognëv si stava lamentando con il suo vicino, il filosofo Ivànyč, di come il suo vino fosse annacquato dopo che lui stesso l’aveva mischiato con l’acqua; lo scrittore Sigàev provava l’affilatura del coltello sulla propria barba, insistendo poiché non abbastanza affilato; il preside dell’università di Mosca, il signor Smirnòv, raccoglieva gocce di brodo con la forchetta, rendendo la zuppa quasi eterna. Lo studente non osava conversare con quelle persone che stimava e che lo lasciavano così di stucco con dei comportamenti tanto strambi, <<Può essere che siano così geniali da apparire stupidi>> pensava di tanto in tanto, <<o magari hanno l’usanza di essere eccentrici per non apparire tediosi.>> rifletté subito dopo. Temendo di essere da meno, quando giunse la frutta, prese un mandarino rinsecchito e cominciò con il tagliarlo a fette, lamentandosi ad alta voce <<Ah, che peccato la natura non ci abbia dato una maniera migliore per mangiarlo.>> Finita la cena se ne tornò a casa soddisfatto, contento di non essere passato per stupido o tedioso.