Poco prima di Natale ho avuto la fortuna di poter partecipare a un evento chiamato Ponti Sospesi, il cui obbiettivo era discutere di teatro e carcere, in particolare all’interno del carcere minorile di Bologna.
Si trattava di una tavola rotonda a cui partecipavano sia le persone che lavorano all’interno della compagnia teatrale, ma anche professori, rappresentanti delle istituzioni e persone sensibili all’argomento. Sono stato piacevolmente sorpreso dalla disposizione dei tavoli, in quanto eravamo effettivamente disposti in modo orizzontale, ovvero senza il tradizionale palco, e con le persone disposte in maniera circolare.
Ho ascoltato con molto interesse gli interventi dei partecipanti, felice di essere in un luogo in cui erano riunite persone sensibili a un argomento a cui tengo molto. Gli spunti di riflessione sono stati tanti, ma ciò che mi è rimasto ben impresso è stato uno degli ultimi: si trattava di un intervento non programmato, di una ragazza che lavora all’interno del Teatro del Pratello.
Le domande che ha posto sono le seguenti: cosa abbiamo sbagliato? Cosa potremmo fare?
È stata l’unica persona a far domande, e, come ha ricordato il Maestro Billi (l’insegnante di teatro), la cosa più difficile è far domande, a dar le risposte sono bravi tutti.
Credo che, come prima cosa, e come è anche stato giustamente suggerito dal dottor Ragaini, dovremmo rifletter maggiormente e farci più domande, proprio perché il nostro sapere è limitato: purtroppo non è cosa comune nella società e, storicamente, chi fa le domande non è mai troppo apprezzato, basta vedere la fine che fece Socrate.
La ragazza che ha fatto le due domande, ha cominciato dicendo che si sentiva in un ambiente protetto, e per questo motivo si permetteva di esprimersi liberamente: è con la stessa attitudine che proverò a riflettere sulle domande che ha posto.
Mi scuso in anticipo se il testo che seguirà potrà sembrare una tirata di orecchie, ma è compito dei giovani voler cambiare il mondo, e, compito degli anziani, di guidare, attraverso la saggezza e l’esperienza, l’impulso creativo-distruttivo giovanile.
La fiducia nelle istituzioni: quante volte abbiamo sentito questa frase? Eppure quante volte ci siamo chiesti cosa essa significhi veramente? La politica ce la ripropone sempre, eppure il compito di chi fa politica non è infondere fiducia nelle istituzioni, quando ciò avviene significa che il potere sta lavorando per la sopravvivenza del potere stesso. Compito della politica – in democrazia, si intende – è coinvolgere la cittadinanza. La fiducia va data alla cittadinanza, alle persone: solamente una cittadinanza attiva può contribuire alla democrazia. L’istituzione dovrebbe essere un mezzo e non un fine.
“Sì, anche tu conti. Anche le tue idee e la tua partecipazione è necessaria. Sei uno studente? Sei una casalinga? Puoi cambiare il mondo, abbiamo bisogno di te!”
Ove la fiducia nelle istituzioni sia alta, ciò che avviene è uno scarico di responsabilità nei confronti di esse: “Perché devo occuparmi della questione carcere? Tanto ci pensano le istituzioni!”.
Vale la stessa cosa per tutte le questioni di carattere sociali.
Quando la fiducia nelle istituzioni è alta ci si ritrova con una popolazione passiva e un concentramento di potere, il quale non può coesistere con una democrazia: fiducia nei confronti del potere significa avere una società non di cittadini, ma di sudditi. Nelle autocrazie, anche recenti, la fiducia nelle istituzioni era alta. La fiducia va infatti di pari passo col potere: ove ho fede, cedo il mio potere.
Il conflitto con la legge: il dottor Schermi ha utilizzato queste parole, riferendosi a chi è in carcere. Un plauso a lui: significa comprendere che la legge, la quale è frutto di processi storici, non è necessariamente dalla parte del giusto. Ciò che noi condanniamo oggi potrebbe non essere un reato domani, così come non lo sono più tanti reati per cui in passato era magari prevista l’impiccagione.
Ben è stato detto dalla dottoressa Tomai, quando ha detto che la verità che emerge dal processo, è una verità di tipo processuale, e non assoluta.
Altre parole però sono state usate: devianze, delinquere, sbagliare. Ecco, se dovessimo fare un elenco di ciò che sbagliamo, credo che si potrebbe tranquillamente riflettere su questi termini, e su come essi entrino in conflitto con ciò discusso appena sopra.
L’improvvisazione: nel teatro si può – anche – improvvisare, nelle istituzioni no. Come disse la dottoressa Frati, in carcere non si improvvisa nulla, tutto è programmato. Forse, come ha ricordato il Maestro Billi, bisognerebbe usare l’ “azzardo”, tentare con audacia, e rassegnarsi al fatto, come ha ricordato il dottor Speltini, che non tutti i progetti vanno a buon fine. A volte è necessario, come ricordato dalla dottoressa Pisano, entrare nello tzunami.
Le trappole della statistica: come giustamente suggerito dalla professoressa Speltini, dovremmo liberarci da queste trappole cognitive. La statistica è un utile strumento, il quale però a volte fornisce facili spiegazioni a problemi molto più complessi. Dietro ai numeri si nascondono problematiche sociali e confondere le cause con gli effetti è questione di un attimo. Ad esempio, il dottor Li Marzi ci ha ricordato come la maggior parte dei reclusi sia di origine straniera: perché? Quali ragioni sociali si nascondono dietro a questi freddi numeri?
Strutture e sovrastrutture: durante il discorso iniziale, la dottoressa Tomai ha accennato alle strutture e alle sovrastrutture che caratterizzano la nostra società. Il concetto era più o meno questo: “Sono la Presidente del Tribunale dei Minori di Bologna, ma sono innanzitutto una persona”. Penso che le sue parole siano molto giuste, e ciò che secondo me è stato un errore – e di cui non saprei accusare nessuno -, è di aver portato le sovrastrutture all’interno della tavola rotonda.
Non eravamo persone che ragionavano su dei problemi specifici, ma eravamo tutti dottori, professori o presidenti. Non abbiamo partecipato a un dialogo, ma a un susseguirsi di interventi che, in un modo o nell’altro, hanno ribadito ciò che già tutti sapevamo: il carcere è un luogo di sofferenza e il teatro è una valvola di sfogo, un luogo dove poter apprendere, condividere, riflettere e migliorare se stessi. Recitare, scrivere, e più in generale tutte le attività creative, curano: tutti, anche chi è nelle carceri, dovrebbero aver diritto di praticare l’arte e scoprire il mondo da altre prospettive.
La rigidità che ho notato, sicuramente abituale a contesti del genere, spaventa e intimorisce coloro che sono freschi, giovani, e che magari non hanno ancora introiettato in sé il funzionamento istituzionale dell’autorità: credo che un luogo più informale potrebbe portare maggior freschezza, nuove idee e maggiore partecipazione.
Gli assenti: mi è stato impossibile non notare come i due video interventi siano stati molto differenti tra di loro. Il primo, ovvero la commovente testimonianza di un ragazzo ristretto che ha avuto modo di esprimersi attraverso il teatro, e il secondo del dottor Li Marzi.
Se il primo non era presente per ragioni che possiamo comprendere, perché invece il secondo non era seduto con noi? Credo che a questa domanda bisognerebbe dare una risposta.
Cosa potremmo fare?
Siamo agenti storici nel tempo, e, come ricordato dalla professoressa Vezzadini, possiamo modificare la realtà con le parole, trasformarle in azioni. Quindi serve sostanzialmente fare ciò che già è stato detto: serve dialogare, riflettere e porsi tante domande.
Se il carcere continuerà a rimanere un luogo punitivo e di abbrutimento; o se cambierà la prospettiva con cui lo concepiamo, sta a noi.
Ogni cosa sta a noi, e saperlo ci rende molto responsabili: e allora cosa fare? Cosa potremmo fare?
Tutto, possiamo fare tutto.
Locandina dell’evento.
Bel testo! Per cambiare secondo me ci vorrebbero più persone che fanno domande, domande profonde, che mettono in dubbio se stesse, che non sono così sicure di ciò che sono e fanno, che sono delle domande per il mondo, non delle risposte pesanti da essere ascoltate (come dice una bella canzone “I’m still here” del cartone treasure planet).
Anche il parlare da una posizione distaccata, analizzando le problematiche da una posizione separata, da studiosi, freddamente, è secondo me una barriera. Gli adulti tendono a studiare e analizzare tutto e non capiscono nulla, perché essenzialmente si distaccano dall’ oggetto osservato, si sentono separati psicologicamente. Bisogna essere con il problema, essere il problema, sentirlo dentro di sé, avere una passione. Non fare spegnere quello scontento, quella fiamma che brucia nel cuore.