Pochi di noi riflettono sull’esistenza nella nostra società del carcere. Il carcere è la concretizzazione della visione colpevolizzante e punitiva che pervade la nostra società. Nel nostro modo di vedere è normale ed accettato giudicare una persona, dargli la colpa di qualcosa ed escluderla, allontanarla per questo. Nella società è normale mettere in carcere una persona che fa un furto, che spaccia…A scuola è normale che la maestra o il professore sgridino un alunno e lo mettano in castigo se questo non fa i compiti o non si comporta bene. Anche nelle nostre relazioni più strette è normale dare la colpa di qualcosa all’altra persona e punirla con il nostro silenzio e con la nostra lontananza. Anche dentro di noi ci colpevolizziamo e ci puniamo, ci accusiamo quando non abbiamo agito come avremmo dovuto; anche dentro di noi creiamo il senso di colpa (nel mondo del sesso, nel contesto matrimoniale e familiare)… Ma perché diamo la colpa? Mi sembra che vi è la colpa quando vi è un sistema di potere, un’autorità; questa autorità detta alcune regole e vuole che i sudditi le rispettino: finché i sudditi rispettano queste regole l’autorità dà loro riconoscimenti e sicurezza; nel momento in cui un suddito non dovesse rispettare le regole dell’autorità, ecco che questo viene marchiato con la colpa, viene giudicato negativamente, viene allontanato e punito: l’autorità non lo accoglie più, non gli dà più apprezzamenti e sicurezze.
Quindi la colpa, secondo questa visione, è un mezzo di potere, è una punizione per la mancata obbedienza alle direttive dell’autorità. La colpa, l’essere esclusi fa paura ed ecco che per evitarla ci si sottomette agli ordini del centro di potere.
Ecco perché la società reclude in carcere le persone, la scuola mette in castigo e giudica con brutti voti gli studenti negligenti; in questi casi il carcere ed il castigo vengono visti chiaramente come manifestazioni di autorità e quindi spesso vengono percepiti come soprusi e nasce nella persona che li subisce un senso di ribellione (potremmo qui fare una riflessione sul come il ribellarsi sia alla fine un rimanere nel gioco dell’autorità: chi si ribella riconosce ancora l’autorità, tanto che sente il bisogno di lottarci contro).
Quando siamo noi a darci la colpa, il riconoscere l’autorità può essere più complicato. L’autorità in questo caso è interiorizzata ed è una parte di noi che giudica e punisce le altre. Penso che una persona si dà la colpa perché teme che se non rispetta ciò che gli è stato insegnato, ciò che si è imposto, ciò che crede sia giusto, alla fine sarà abbandonato, allontanato e non amato dagli altri. Alcuni psicologi parlavano anche di questo meccanismo: vi sono un bambino e sua mamma; la mamma si arrabbia e sgrida il bambino, il bambino allora prova un moto di ribellione verso la madre, tuttavia capisce che non può ribellarsi perché sa che la sua sopravvivenza dipende dalla protezione della madre; così, piuttosto che riconoscere i torti della madre, se ne fa carico lui e si dà la colpa di ciò che la madre gli ha rimproverato; ad esempio, la madre sgrida il bambino dicendogli “non ti stai comportando bene”; il bambino non fa valere le sue ragioni, ma si dà la colpa del suo comportamento; la colpa qui si configura come un mezzo di sottomissione alla madre per avere in cambio la sua protezione.
La colpa è una forma di conflitto interiore: una parte dà la colpa e punisce le altre; la colpa procura malessere e causa nevrosi.
Credo che siamo noi stessi, alla fin fine, a creare l’autorità: creiamo l’autorità perché vogliamo un potere che ci dia sicurezza, perché siamo confusi e vogliamo qualcuno che ci dia delle indicazioni. Ci sottomettiamo all’autorità o ci ribelliamo ad essa, ma in ogni caso rimaniamo nel gioco dell’autorità (chi si ribella all’ autorità poi spesso obbedisce alle direttive di un’altra autorità e se vince la sua lotta impone una nuova, levigata e modernizzata autorità).
Penso che sarebbe meglio per la nostra felicità e per il nostro benessere se al posto della via dell’autorità e della colpa percorressimo la via della comprensione e della compassione. Seguendo questa via noi, se riteniamo che una persona stia tenendo dei comportamenti che causano sofferenza, non lo giudichiamo, colpevolizziamo ed allontaniamo. Piuttosto, apriamo uno spazio di dialogo e diamo alla persona che sta tenendo il comportamento in questione la possibilità di esprimere i suoi bisogni, le motivazioni di quel comportamento; noi stessi aiutiamo quella persona a capirsi.
Penso che molti dei nostri comportamenti, soprattutto di quelli che causano sofferenza, siano condizionati. Derivano da dei condizionamenti sociali e familiari (carenze di affetto, violenze subite); questi comportamenti sono dunque reazioni automatiche (quando arriva un certo stimolo, il cervello ha già la risposta programmata e reagisce quindi in un determinato modo); penso che questi comportamenti siano messi in atto da una persona come difesa, come barriera e che nascano dalla paura e dalla ricerca di sicurezza (ad esempio una persona che teme di parlare in talune situazioni perché ha paura di essere giudicato e quindi allontanato dagli altri).
Ritengo quindi che non abbia senso incolpare una persona per determinati comportamenti, essendo questi condizionati. Piuttosto mi sembra utile comunicare con questa persona, permettergli di riflettere in modo che questa possa illuminare i suoi condizionamenti, divenirne consapevole.
Ecco perché secondo me dovremmo mettere in questione l’istituzione del carcere. Per quanto infatti si dica che il carcere non è punitivo ma rieducativo e risocializzante, questo si configura ad oggi come un luogo di isolamento, di privazione della libertà; si configura come un luogo, per quanto ne so, dove non vi è ascolto e comprensione per i detenuti, dove non li si aiuta e non gli si dà spazi per riflettere sui condizionamento che hanno causato i propri comportamenti.
Penso che il carcere non dovrebbe più essere un luogo di esclusione, di segregazione e di allontanamento dalla società; penso che non dovrebbe più essere un luogo punitivo e di privazioni, un luogo triste, di violenza, di ignoranza. Penso che al posto del carcere vi dovrebbero essere dei gruppi di ascolto e di aiuto per chi tiene dei comportamenti che causano sofferenza a lui e agli altri (manterrei solamente, come mezzo coercitivo, misure di sicurezza strettamente necessarie ed umane per chi può effettivamente tenere dei comportamenti dannosi per gli altri), penso che non bisognerebbe più allontanare e separare quelli che consideriamo criminali da noi ma al contrario ascoltarli, imparare da loro. Penso infatti che quelli che consideriamo criminali ci possano insegnare, ci possano far vedere ciò che non va nella nostra società ed in noi, e che ha causato i comportamenti dei cosiddetti criminali. Penso che non dovremmo più creare la separazione fra gli impregiudicati, gli onesti ed i criminali.